Nelle settimane scorse avevamo raccontato la Bora e i suoi luoghi grazie alla voce di Maurizio Stagni nella rubrica Maurizio Racconta Trieste. Oggi Maurizio ci accompagna in un breve racconto di una sua passeggiata per le vie del centro con un amico di fuori Trieste in una giornata di Bora. Un itinerario che parte da Corso Saba per arrivare in Piazza Ponterosso, vicinissimo alla Residenza.
L’avventurosa passeggiata inizia partendo da Corso Saba
Vediamo ombre lente e gonfie risalire il vento e altre scendere rapide e sfrangiate lungo corso Umberto Saba al di là dei vetri satinati del portone. Sto accompagnando un mio caro amico in un percorso guidato delle vie del centro in un giorno di Bora forte. Una sosta traditrice fra una raffica e un’altra ci lascia iniziare pacificamente la nostra avventurosa passeggiata.
Credo che per lui sia come immergersi in qualcosa di irreale, teorizzato, codificato e catalogato solo attraverso immagini, filmati e racconti digitali ma non per questo compreso e interiorizzato secondo l’esperienza della pelle.
Camminiamo paralleli su un marciapiede quasi deserto. Largo Barriera è uno dei punti nei quali la Bora soffia forte tanto da rendere via Carducci, proseguimento naturale, una pista da pattinaggio per i grossi bottini della spazzatura; la Bora spalanca i loro ampi coperchi trasformandoli in efficienti vele.
Cammino aspettandomi la prossima raffica alle spalle. Inevitabilmente arriva, annunciata da una prima potente ventata. Il mio amico appoggia in ritardo il peso sui talloni e con la prossima ravvicinata e vigorosa spinta del vento, a piccoli passetti prodotti dallo squilibrio fra la spinta e la resistenza inevitabili e ingovernabili: tacco, punta, tacco, punta, tacco… sul bilico della caduta…è già qualche metro avanti a me.
Si gira immobile faccia al vento e lo raggiungo all’angolo di via Alberto Nota, corto vicolo perpendicolare a corso Saba e per questo ottimo ricovero in attesa del ricongiungimento. Lo vedo con il giaccone gonfio, il vento gli entra da sotto l’abito e gli esce dal colletto e la macchina fotografica si agita a banderuola al vento nonostante il peso professionale. Lo raggiungo leggermente inclinato all’indietro pronto a rimettermi in equilibrio quando la massa d’aria fredda che mi sostiene smetterà di farlo. Vorrei dirgli della panetteria all’angolo, forse dimenticata, ma ancora forno attivo alla vecchia maniera con la produzione di un’ottima “polentina” traduzione triestina del plumcake. Non c’è maniera, il vento ci riporta sul nostro itinerario.
Mai prendersi a braccetto con la Bora
Il mio amico ride quando lo prendo sottobraccio. Sapevo che l’adrenalina del primo incontro può produrre questo effetto. Unirsi agganciati così è un errore da non fare. Il gesto amichevole offre infatti alla Bora una superficie che, seppur doppia, in realtà, per una legge fisica mai scritta, quadruplica di efficacia la spinta delle molecole d’aria unite compatte nella stessa direzione ed intenzione. All’attraversamento offriamo il fianco e per questo ci viene condonata una raffica che però blocca in una immagine quasi statica il pedone che cerca di risalire la corrente difronte a noi. L’uomo a fatica riparte quasi senza sollevare la scarpa dal marciapiede, con movimenti rallentati se non per le falde del cappotto e la sciarpa, che si dimenano in modo accelerato ed incontrollato. Il mio amico, nonostante la faccia protetta nel colletto tirato sul volto, sta sorridendo.
Camminiamo lasciandoci spingere dalla Bora discontinua in intensità e durata fino all’angolo con via Silvio Pellico.
Lascio la presa poco prima dell’incrocio per vedere, dietro all’angolo, quale effetto avrà il vento sulla sua espressione. Negli occhi meraviglia più che paura quando una mano grande quanto tutta la sua persona gli consegna una vera sberla di vento. Diversamente da come si può pensare, la Bora scende da corso Saba ma scende, anche, perpendicolare al corso proveniente dal colle di San Giusto. Quell’angolo non ti salva. Non c’è un “sottovento” dove ripararsi, a meno di non entrare in uno dei tanti negozi della catena di fast food più nota al mondo.
É uno di quei punti della città, ritratti nelle foto storiche: uomini con cappelli e donne con fazzoletti in testa aggrappati alle corde, ormai sostituite dalle catene, che attendono la sosta fra una raffica e l’altra per attraversare.
Finalmente in Corso Italia la tensione cala, riusciamo a camminare sospinti dal vento ma non più violentemente. La piccola angolazione rispetto a Corso Saba spezza un poco le raffiche.
Proseguiamo per il Corso dove alcune raffiche non mancano di ricordarci con chi abbiamo a che fare. Il cielo è limpido, azzurro senza incertezze.
Il Guerriero Morente di Marcello Mascherini
Arriviamo spinti, strattonati, sbatacchiati in largo Riborgo. Le raffiche di Bora dovrebbero scendere impacchettate da via San Spiridione e investire il nostro fianco destro; ma non è così. Come se preferisse i luoghi più aperti rispetto ai ridotti spazi fra i palazzi costruiti sopra la stretta rete delle vecchie saline arriva diretto un “rafficon” dalla nostra sinistra e sono costretto ad assicurare il mio berretto di lana con la mano in una immagine molto triestina perché sento che – se pur l’ho voluto antibora stretto – sta mollando la presa. Il mio amico la riceve in pieno, di petto, mentre guarda il “guerriero morente”. Una scultura di Marcello Mascherini trascurata, immersa nel traffico e nella fretta del centro città. Bronzo scavato come fosse l’effetto del vento e dall’acqua come una pietra carsica sul quale il solitario guerriero si distende in un ultimo gesto. Lo scultore avrebbe voluto la scultura immersa in una conca del terreno ad imitare una dolina forse consapevole che la battaglia del soldato difeso solo dal suo scudo avrebbe potuto trovare riparo dalle raffiche che in quel punto non mollano.
Giungiamo in Piazza Ponterosso
Il mio amico si inclina, vibra ma riesce a rimanere quasi immobile dopo un piccolo arretramento e un ulteriore aumento innaturale di inclinazione; esagerata quando la raffica molla e lui è sbilanciato in avanti. Si salva dall’avanzamento nella impacciata siepe. Si gira verso di me. Soffia fra i pollici nelle mani fredde unite, per scaldarsi, ma vedo dai suoi occhi che lo fa anche per smorzare incredulo, l’effetto della forza e il carattere di questo nostro vento. Lasciamo alle spalle gli edifici razionalisti del palazzo delle Assicurazioni Generali e del ex palazzo del banco di Napoli. Ci incamminiamo in direzione Nord verso Piazza Ponterosso. Il mio amico mi segue, continuo a guardarlo mentre fotografa ma ora sempre ridossato o appoggiato a qualche muro a qualche palo. Ha imparato che bisogna anche a pensare a “salvarsi”. “Salvarsi” da movimenti o accadimenti involontari, buffi, ridicoli. Spesso causa della bora agli occhi degli altri puoi sembrare un ubriaco. Un continuo tira e molla di vortici e sventagliate giungiamo presto davanti alla chiesa di San Spiridione. Chiesa serbo-ortodossa magnifica. Vorrei mostrargli la bellezza del mosaico della facciata. Difficile da ammirare costretto nella strada stretta.
Il ritmo della città prosegue come sempre
Subito siamo all’angolo con via Genova in un momento di bonaccia. Il verduraio con i clienti imbacuccati nella lana e nei piumini, la pescheria col magnifico pescato immerso nel ghiaccio sottolineano il fatto che a Trieste, nonostante i TG comunichino l’allarme rosso per il meteo triestino, in città tutto continua normalmente. Le immagini che scorrono in TV sono sempre quelle d’archivio ma a noi triestini interessa solo il vanto che si parli della nostra resistenza in una città tanto bella e tanto difficile. Si sapesse la verità! A Trieste la bora soffia raramente molto raramente e d’estate i luoghi strapazzati dalle raffiche di vento sono anche quelle nelle quali il caldo è insopportabile e il sole brucia.
Poca gente in giro non significa sia tutto fermo anzi tutto si muove più rapidamente ottimizzando tempi e spostamenti. Noi che percorriamo la città con l’unico scopo della competizione con la Bora abbiamo l’impressione che la città si sia messa in pausa. Ma così non è.